Milan, Giampaolo e la genesi di un nuovo fallimento

Milan e Marco Giampaolo: i motivi del fallimento. Una scommessa fin troppo rischiosa, un mercato con troppe ombre e quel suicidio del tecnico…

Marco Giampaolo AC Milan
Marco Giampaolo (©Getty Images)

Un altro fallimento. L’ennesimo. Perché l’addio precoce di Marco Giampaolo, addirittura dopo sette giornate di campionato, non può che essere definitivo tale. Specialmente dopo la forte investitura estiva, le promesse di progetto e l’unanimità apparente verso la stessa direzione.

Invece sono bastati 90 minuti per far crollare tutto. Sì, 90. Tempo di Udinese-Milan e il castello di sabbia viene presto giù. Una partita, in fondo, che aveva già lasciato intendere la piega che avrebbe preso questo percorso.

Ma andiamo con ordine. Il Milan, reduce da un 5° posto con Gennaro Gattuso, decide di ripartire da un tecnico abituato a lavorare con i giovani e soprattutto noto per il bel gioco, prima con l’Empoli e poi con la Sampdoria. Così arriva la scelta coraggiosa: panchina a Giampaolo. Il tutto in virtù di una nuova politica targata Elliott improntata sul low-cost momentaneo, i giovani e la futuribilità per rinascere quanto prima.

Milan, Giampaolo e la scommessa ‘alla Sarri’

Quindi fuori Gattuso – su sua stessa volontà – e dentro Giampaolo. Probabilmente già qui nasce l’intoppo. Perché Empoli e Genova non sono Milano. La società ha voluto in un certo senso ripetere ‘l’effetto Sarri’ in rossonero, ma anche Napoli non è Milano. Lì non c’è la stessa pressione storica, economica e politica che vige in rossonero. Lì la possibilità di scommettere c’è (e comunque ci furono polemiche e contestazioni nel post Benitez), ma a Milano no.

Al Milan non puoi rischiare così. Soprattutto nell’epoca del ridimensionamento, del fair play finanziario e dopo una serie di tracolli che vedono il Diavolo fuori dalla Champions addirittura dal 2013. Attenzione: non significa che la scelta di per sé sia stata sbagliata, ma che probabilmente questo non era il periodo adatto. Una scommessa rischiosa. Tanto di cappello se fosse andata bene, ma in caso contrario? Un’altra stagione gettata al vento? E soprattutto: quanti ‘casi Sarri’ si sono registrati negli ultimi anni? L’ultimo più significativo forse fu proprio Massimiliano Allegri, ma erano altri anni, altri contesti e le premesse anche erano diverse.

In sintesi: era un rischio troppo grande per un Milan già recidivo, fragile e senza grossi sbocchi. Serviva probabilmente un altro profilo, un allenatore esperto e portato per certi traguardi e pressioni. Non necessariamente un big, ma un tecnico più abituato a certi contesti anche se disposto a badare più al sodo che all’estetica. Già qui, quindi, c’è stato il primo corto circuito.

Milan, un mercato controindicativo

Secondo punto: il mercato. Una volta sposate tale causa, bisogna poi abbracciarla in tutto e per tutto. Non spendendo necessariamente milioni, ma muovendosi quanto meno in direzione del tecnico. Cosa non successa in casa Diavolo. Perché il trequartista, quell’Angel Correa rincorso per un’intera estate, alla fine non è più arrivato. E alla fine, al suo posto, è arrivato anche un enigmatico Ante Rebic. Un esterno di un tridente. Perfetto per un 4-3-3, modulo ritenuto congeniale dalla società, ma non scelto dal tecnico che optava pubblicamente e storicamente al 4-3-1-2. Che significa?

Senza poi considerare il mancato arrivo di uno, se non due, giocatore di esperienza. Difetto ammesso successivamente anche dallo stesso Zvonimir Boban, con non pochi rimpianti. Perché alla fine ne è nato un Milan fin troppo giovane, tanto da risultare addirittura la squadra con l’età media più bassa della Serie A. Un dato virtuoso e prezioso in prospettiva, ma controindicativo con le impellenze che regnano in casa Milan.

Che poi in attacco servissero rinforzi importanti, lo si era capito già dalla precedente stagione con gli impalpabili Hakan Calhanoglu e Suso nel tridente. Ma oltre Leão, una scommessa per ora vinta, ne è arrivata un’altra ancor più rischiosa: Rebic appunto. Troppe incognite in un contesto dove un nuovo fallimento non sarebbe tollerato e tollerabile. Invece è ciò che è accaduto.

Per non parlare del mercato di uscita. Tra la cessione di Patrick Cutrone (sia chiaro: comunque non sarebbe stato il salvatore della patria), la difficoltà nel cedere (inconcepibile) e una maledettissima difficoltà nel spezzare, in ogni caso, un cordone ombelicale che alla fine ha finito col condizionare il Milan. Che non fosse più il caso di proseguire con Lucas Biglia, era piuttosto chiaro. Che Ricardo Rodriguez non si sposasse pienamente con la filosofia propositiva di Giampaolo, anche era noto. Così come il fatto che bisognasse andare oltre i vari Hakan Calhanoglu, Suso, Samuel Castillejo e Fabio Borini. Invece alla fine sono rimasti tutti.

L’enigma Suso tra cessione e conferma

Merita un mini capitolo a parte Suso, protagonista d’eccezione dell’ultima estate. La società, al momento dell’ingaggio dell’allenatore, avrebbe dovuto chiarire da subito che lo spagnolo fosse in uscita. Perché Giampaolo non lo conosceva e magari la curiosità di lavorarci c’è, ma la dirigenza invece aveva un quadro decisamente più chiaro. Tra Montella e Gattuso, Suso ha dimostrato ampiamente di non essere quel campione apparente e né un trascinatore. Magari potrebbe esserlo davvero, ma la mancata personalità e la non continuità lo limitano dannatamente. Potrebbe essere quanto meno un leader tecnico, ma anche lì viene meno. Sparisce col tempo. Si eclissa.

E invece quest’estate è diventato addirittura il centro del nuovo progetto rossonero, mentre la società comunque provava a cederlo per prendere Correa. Un paradosso totale e da black out assoluto. Il Milan ci punta davvero, come richiesto da Giampaolo, o prova a cederlo per prendere Correa? Entrambe le cose. Come sia possibile, non si sa. Resta il fatto che se l’Atlético Madrid avesse abbassato le proprie pretese (e se André Silva fosse andato al Monaco), ora staremmo parlando d’altro in questo caso.

Le colpe di Giampaolo

Capitolo allenatore. Perché in tutto questo Giampaolo ne ha di colpe, eccome se non ne ha. Dopo un’estate a provare l’amato 4-3-1-2, basta l’esordio alla Dacia Arena per autosconfessarsi subito in diretta con un “probabilmente serve un altro schema”. Per carità: il cambiamento gli fa onore ed è sinonimo di intelligenza, ma le tempistiche e il contesto lo rende sconcertante. Ha mollato subito. Non un grandissimo segnale di fiducia il quel che stesse facendo. Anche Sarri a Napoli accantonò il suo trequartista per passare a un tridente puro, ma avvenne comunque dopo diverse gare e perché quella formazione – quasi l’attuale – era troppo palesemente perfetta per un 4-3-3.

Poi la nota dolente dei nuovi acquisti. Giusto puntare sulle certezze e su chi ha lavorato a Milanello, ma Giampaolo ha esagerato e davvero tanto. Anche perché chi ha preso posto in campo non ha fatto certamente meglio. Meglio un Rafael Leão ancora non al 100% della conoscenza tattica, ma vivo, piuttosto che un anonimo e impalpabile Castillejo proposto nelle prime giornate. Idem con Ismael Bennacer in mediana. Sfortunato con Theo Hernandez – infortunatosi e pertanto fuori all’avvio – ma colpevole per tutto il resto. Anche perché era meglio sperimentare all’inizio, quando un calendario clemente ti presentava Udinese, Brescia e Verona, piuttosto che dopo, nel momento che alla fine si è rivelato appunto fatale.

Leão invece ha visto il campo dal primo minuto soltanto nel derby, e senza la difesa a tre di Conte chissà quando quando sarebbe successo. Per non parlare di Lucas Paquetá. Un patrimonio della società, costato 35 milioni, svalutato al pari di un Krzysztof Piatek irriconoscibile. Quest’ultimo avrà senz’altro delle grosse responsabilità, ma un allenatore anche deve capire come esaltare e mettere in condizioni un centravanti reduce da 30 goal stagionali. Situazione attuale: 70 milioni deprezzati.

Dopo essere stato accantonato al posto di Calhanoglu, Paquetá poi è stato stroncato sul nascere: subito sostituzione dopo addirittura 45 minuti a Verona. Non ha certo brillato il brasiliano in quell’occasione, tra l’altro alla prima assoluta da trequartista, ma nessuno dell’intera formazione lo ha fatto. Eppure per l’ex Flamengo pagò oltremodo, con una bocciatura immediata e una mazzata che rischia di condizionare eccessivamente un giocatore comunque fondamentale.

Se credi nell’impiego, non lo sconfessi in un primo tempo opaco. Altrimenti, per coerenza, Giampaolo avrebbe dovuto stravolgere da subito la formazione dopo le prime due giornate. E’ come se invece il tecnico avesse voluto dimostrare qualcosa a qualcuno: tempo di farlo, e di dimostrare di aver ragione, per poi tornare subito alle proprie idee. E così Paquetá passa dall’essere “un brasiliano molto europeo” con Gattuso, a un “indisciplinato tatticamente” nella nuova stagione. Quella della consacrazione.

Il suicidio finale e una dirigenza che si autosconfessa

Giusto voler trovare la quadra del cerchio prima di ogni altra cosa, ma Giampaolo probabilmente ha esasperato troppo i concetti. In campo c’è sempre bisogno della qualità, soprattutto in una squadra anemica e carente sotto questo aspetto. Invece lui ha tenuto fuori i più dotati tecnicamente. Vedi Genova: Leão in panchina sabato sera. Nella gara della vita, l’unico bagliore di luce in un tunnel profondo, il portoghese resta fuori. Out anche Paquetá e dentro un convalescente Giacomo Bonaventura. Il tutto, ripetiamo, nello ‘spareggio finale’. Un suicidio. Sia sul piano tecnico, come testimoniano i cambi nella ripresa, che indicativo, considerando il messaggio lanciato a una società già insoddisfatta. Mai che avesse lanciato insieme una mix di qualità per provare a uscire da questa fase di stallo. Mai che avesse osato.

Risultato? Milan apatico, senza traccia del bel gioco e con le armi migliori accantonate a bordo campo. Quando poi c’è stata un segnale di fiducia, ossia a Torino, questo è stato spazzato presto via. Ma il successivo crollo nervoso, quello in casa contro la Fiorentina, è ancora peggio. Inaccettabile e vergognoso. E’ stato quello il momento che ha sancito la rottura tra Giampaolo e l’ambiente milanista. Una frattura insanabile. L’umiliazione è stata troppa, il senso di vuoto tremendo e il rischio di un nuovo fallimento così chiaro e tangibile. Un San Siro così inferocito, dopo appena poche giornate di campionato, non si vedeva da anni. Ed ecco che non c’è da meravigliarsi se Giampaolo ha già raggiunto i record negativi della storia rossonera, andando anche decisamente dietro nel tempo.

Tempo scaduto. In realtà, secondo i proclami e le premesse societarie, ne avrebbe dovuto avere altro. Ma questo è il Milan e di tempo non ce n’è. Se già normalmente è così, figuriamoci dopo anni e anni di decadimento. Peccato però che questo concetto non sia stato tenuto in considerazione del tutto quest’estate. Perché questo esonero sconfessa l’operato dell’intera dirigenza e del club. Questo è il fallimento di tutti in casa Milan. Nessuno escluso. E ora, salvo miracoli, si va verso una nuova stagione fallimentare. Un altro anno senza Champions League, molto probabilmente. E più si andrà avanti, più non ci sarà tempo, più i margini di errore saranno minimi e più non ci saranno vie di uscita. Attenti all’implosione. 

di Pasquale Edivaldo Cacciola 

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